LIX. Nè perch' or sieda nel mio seggio, ein fronte Già gli risplenda la regal corona, Pone alcun fine a' miei gran danni, a l'onter Arder minaccia entro'l castello Aronte, Ciò dice egli di far, perchè dal volto E ritornar nel grado ond' io l'ho tolto, LXI. E ben quel fine avrà l'empio desire E questo pianto ond' ho i tuoi piedi aspersi LXII. Per questi piedi, onde i superbi e gli emp Calchi: per questa man, che 'l dritto aita: Per l'alte tue vittorie, e per que' tempj Sacri, in cui desti e cui dar cerchi aita: Il mio desir, tu che puoi solo, adempj, E in un col regno a me serbi la vita La tua pietà: ma pietà nulla giove, Sanco te il dritto e la ragion non move. LXIII. Tu, cui concesse il cielo, e dielti in fate Voler il giusto, e poter ciò che vuoi; A me salvar la vita, a te lo Stato (Che tuo fia s'io'l ricovro ) acquistar puoi Fra numero sì grande a me sia dato Diece condur de' tuoi più forti eroi: Ch' avendo i padti amici e'l popol fido, ? Bastan questi a ripormi entro al mio nido. LXIV. Anzi un de' primi, a la cui fe commessa È la custodia di secreta porta, Promette aprirla, e ne la reggia stessa Porci di notte tempo; e sol m' esorta Ch'io da te cerchi alcuna aita: e in essa, Per picciola che sia, si riconforta Più che s'altronde avesse un grande stuolo: Tanto l'insegne estima e'l nome solo. LXV. Ciò detto tace, e la risposta attende Nè pur I' usata sua pietà natia LXVII. Mentse ei così dubbioso a terra volto Lo sguardo tiene, e'l pensier volve e gira; La donna in lui s'affissa, e dal suo volto Intenta pende, e gli atti osserva e mira: E perchè tarda oltr' al suo creder molto La risposta, ne teme e ne sospira. Quegli la chiesta grazia alfin negolle; Ma die risposta assai cortese e molle. LXVIII. Se in servigio di Dio, ch' a ciò n'elesse, Ma se queste sue gregge, e queste oppresse Ben ti prometto (e tu per nobil pegno S'anzi il suo dritto io non rendessi a Dio. LXX. A quel parlar chinò la donna, e fisse Le luci a terra, e stette immota alquanto: Poi sollevolle rugiadose, e disse, Accompagnando i flebil' atti al pianto: Misera ed a qual' altra il ciel prescrisse Vita mai grave ed immutabil tanto, Che si cangia in altrui mente e natura, Pria che si cangi in me sorte sì dura? LXXI. Nulla speme più resta: invan mi doglio: Non an più forza in uman petto i preghi. Forse lece sperar che'l mio cordoglio, Che te non mosse, il reo tiranno pieghi? Nè già te d'inclemenza accusar voglio, Perchè'l picciol soccorso a me si neghi; Ma il cielo accuso, onde il mio mal discende, Che 'n te pietate inesorabil rende. LXXII. Non tu, signor, nè tua bontade è tale; Che poi che legge d'onestate, e zelo A cui ricorro intanto? ove mi celo? O quai contra il tiranno avrò rifugi ? |