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LXXIV.

Qui tacque: e parve ch'un regale sdegno E generoso l'accendesse in vista: E'l piè volgendo, di partir fea segno Tutta ne gli atti dispettosa e trista. Il pianto si spargea senza ritegno, Com'ira suol produrlo a dolor mista; E le nascenti lagrime a vederle Erano ai rai del sol cristalli e perle. LXXV.

Le guancie asperse di que'vivi umori Che giù cadean sin de la veste al lembo, Parean vermigli insieme e bianchi fiori, Se pur gl'itriga un rugiadoso nembo, Quando su l'apparir de primi albori Spiegano a l'aure liete il chiuso grembo; E l'alba che gli mira e se n'appaga, D'adornarsene il crin diventa vaga.

LXXVI.

Ma il chiaro umor che di sì spesse stille Le belle gote e'l seno adorno rende, Opra effetto di foco, il qual in mille Petti serpe celato, e vi s'apprende. Oh miracol d' Amor, che le faville Tragge del pianto, e i cor' ne l' acque accende! Sempre sovra natura egli ha possanza; Ma in virtù di costei se stesso avanza.

LXXVII.

Questo finto dolor da molti elice Lagrime vere, e i cor' più duri spetra. Ciascun con lei s'affligge, e tra se dice: Se mercè da Goffredo or non impetra; Ben fu rabbiosa tigre a lui nutrice, E'l produsse in aspr'alpe orrida pietra, O l'onda che nel mar si frange e spuma. Crudel, che tal beltà turba e consuma. LXXVIII.

Ma il giovinetto Eustazio, in cui la face - Di pietade e d'amor è più fervente; Mentre bisbiglia ciascun altro, e tace, Si tragge avanti, e parla audacemente : O germano e signor, troppo tenace Del suo primo proposto è la tua mente, S'al consenso comun, che brama e priega, Arrendevole alquanto or non si piega.

LXXIX.

Non dico io già che i principi ch'a cura Si stanno qui de' popoli soggetti, Torcano il piè da l'oppugnate mura, E sian gli uffici lor da lor negletti; Ma fra noi che guerrier' siam di ventura Senza alcun proprio peso, e meno astretti A le leggi degli altri; elegger diece Difensori del giusto a te ben lece.

LXXX.

Ch' al servigio di Dio già non si toglie L'uom ch'innocente vergine difende: Ed assai care al ciel son quelle spoglie Che d'ucciso tiranno altri gli appende. Quando dunque a l'impresa or non m'invoglie Quell' util certo che da lei s'attende; Mi ci muove il dover: ch'a dar tenuto È l'Ordin nostro a le donzelle ajuto.

LXXXI.

Ah non fia ver, per Dio, che si ridica In Francia, o dove in pregio è cortesia, Che si fugga da noi rischio o fatica Per cagion così giusta e così pia. Io per me qui depongo elmo e lorica : Qui mi scingo la spada; e più non fia Ch' adopri indegnamente arme o destriero, O'l nome usurpi mai di cavaliero.

LXXXII.

Così favella: e seco in chiaro suono
Tutto l'Ordine suo concorde freme:
E chiamando il consiglio utile e buono,
Co' preghi il capitan circonda e preme.
Cedo, egli disse allora, e vinto sono
Al concorso di tanti uniti insieme;
Abbia, se parvi, il chiesto don costei
Dai vostri sì, non dai consigli miei.

LXXXIII.

Ma se Goffredo di credenza alquanto
Pur trova in voi, temprate i vostri affetti.
Tanto sol disse: e basta lor ben tanto,
Perchè ciascun quel ch'ei concede accetti.
Or che non può di bella donna il pianto,
Ed in lingua amorosa i dolci detti?
Esce da vaghe labra aurea catena

Che l'alme a suo voler prende ed affrena.

LXXXIV.

Eustazio lei richiama, e dice: omai

Cessi, vaga donzella, il tuo dolore:
Che tal da noi soccorso in breve avrai,
Qual par che più richiegga il tuo timore.
Serenò allora i nubilosi rai

Armida, e sì ridente apparve fuore,
Ch'innamorò di sue bellezze il cielo,
Asciugandosi gli occhi col bel velo.

LXXXV.

Rende lor poscia in dolci e care note
Grazie per l'alte grazie a lei concesse ;
Mostrando che sariano al mondo note
Mai sempre, e sempre nel suo core impresse :
E ciò che lingua esprimer ben non puote,
Muta eloquenza ne' suoi gesti espresse:
E celo sì sotto mentito aspetto

Il suo pensier, ch'altrui non die sospetto.

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LXXXVI.

Quinci vedendo che fortuna arriso Al gran principio di sue frodi avea; Prima che'l suo pensier le sia preciso, Dispon di trarre al fine opra sì rea; E far con gli atti dolci e col bel viso Più che con l'arti lor Circe e Medea; E in voce di Sirena ai suoi concenti Addormentar le più svegliate menti.

LXXXVII.

Usa ogni arte la donna, onde sia colto Ne la sua rete alcun novello amante: Nè con tutti, nè sempre un stesso volto Serba; ma cangia a tempo atti e sembiante. Or tien pudica il guardo in se raccolto, Or lo rivolge cupido e vagante. La sferza in quegli, il freno adopra in questi, Come lor vede in amar lenti o presti.

LXXXVIII.

Se scorge alcun che dal suo amor ritiri L'alma, e i pensier' per diffidenza affrene; Gli apre un benigno riso, e in dolci giri Volge le luci in lui liete e serene: E così i pigri e timidi desiri Sprona, ed affida la dubbiosa spene; Ed infiammando l'amorose voglie, Sgombra quel gel che la paura accoglie.

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