LXXXIX. Ad altri poi ch' audace il segno varca, Scorto da cieco e temerario duce; XC. Stassi talvolta ella in disparte alquanto, E'l volto e gli atti suoi compone e finge, Quasi dogliosa; e in fin su gli occhj il pianto - Tragge sovente, e poi dentro il respinge: XCI. Poi, siccom'ella a quel pensier s'invole, E novella speranza in lei si deste, Ver gli amanti il piè drizza e le parole, E di gioja la fronte adorna e veste; E lampeggiar fa, quasi un doppio sole, Il chiaro sguardo e'l bel riso celeste Su le nebbie del duolo oscure e folte, Ch'avea lor prima intorno al petto accolte. XCII. Ma mentre dolce parla e dolce ride, E di doppia dolcezza inebria i sensi; Quasi dal petto lor l'alma divide, Non prima usata a quei diletti immensi. Ahi crudo Amor! ch' egualmente n' ancide L'assenzio e'l mel che tu fra noi dispensi; E d'ogni tempo egualmente mortali Vengon da te le medicine e i mali. ХСПІ. Fra sì contrarie tempre in ghiaccio e in foco, Oppur le luci vergognose e chine XCV. Ma se prima ne gli atti ella s' accorge D'uom che tenti scoprir l'accese voglie; Or gli s'invola e fugge, ed or gli porge Modo onde parli, e in un tempo il ritoglie. Così il dì tutto in vano error to scorge Stanco, e deluso poi di speme il toglie. Ei si riman qual cacciator ch'a sera Perda alfin l'orme di seguita fera. XCVI. Queste fur l'arti onde mill' alme e mille Prender furtivamente ella potéo. Anzi pur furon l'arme onde rapille, Ed a forza d' Amor serve le feo. Qual meraviglia or fia, se'l fero Achille D'amor fu preda, ed Ercole e Teseo, S'ancor chi per Gesù la spada cinge L'empio ne' lacci suoi talora stringe? Fine del Canto quarto. C.Do Aeyurt Scub, Ne cesso mai fin che nel seno immersa Tas Ger.Cs. GERUSALEMME LIBERATA. M CANTO QUINTO. I. Entre in tal guisa i cavalieri alletta Ne l'amor suo l'insidiosa Armida, II. Ma con provido avviso alfin dispone Ch'essi un di loro scelgano a sua voglia, Che succeda al magnanimo Dudone, E quella elezion sopra se toglia. Così non avverrà ch'ei dia cagione Ad alcun d'essi che di lui si doglia; E insieme mostrerà d'aver nel pregio In cui deve a ragion lo stuolo egregio. III. A se dunque gli chiama, e lor favella: Stata è da voi la mia sentenza udita, Ch'era, non di negare a la donzella, Ma di darle in stagion matura aita. Di nuovo or la propongo, e ben puote ella Esser dal parer vostro anco seguíta: Che nel mondo mutabile e leggiero Costanza è spesso il variar pensiero. IV. Ma se stimate ancor che mal convegna Al vostro grado il rifiutar periglio; E se pur generoso ardire sdegna Quel che troppo gli par cauto consiglio: Non fia ch' involontarj io vi ritegna; Nè quel che già vi diedi or mi ripiglio; Ma sia con esso voi com'esser deve Il fren del nostro imperio lento e leve. |