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XLIV.

Gli uni e gli altri son mille, e tutti vanno Sotto un altro Roberto insieme a stuolo. Maggior alquanto è lo squadron britanno: Guglielmo il regge, al re minor figliuolo. Sono gl' Inglesi sagittarj, ed anno Gente con lor ch'è più vicina al polo. Questi de l'alte selve irsuti manda La divisa dal mondo ultima Irlanda.

XLV.

Vien poi Tancredi; e non è alcun fra tanti (Tranne Rinaldo) o feritor maggiore, O più bel di maniere e di sembianti, O più eccelso, ed intrepido di core. S' alcun'ombra di colpa i suoi gran vanti Rende men chiari, è sol follia d'amore; Nato fra l'arme amor di breve vista, Che si nutre d'affanni, e forza acquista.

XLVI.

È fama che quel dì che glorioso
Fe'la rotta de' Persi'l popol franco:
Poi che Tancredi alfin vittorioso
I fuggitivi di seguir fu stanco;
Cercò di refrigerio e di riposo
A l'arse labbia, al travagliato fianco
E trasse, ove invitollo al rezzo estivo
Cinto di verdi seggi un fonte vivo.

XLVII.

Quivi a lui d'improvviso una donzella, Tutta, fuor che la fronte, armata apparse. Era pagana, e là venuta anch'ella Per l'istessa cagion di ristorarse. Egli mirolla, ed ammirò la bella

Sembianza, e d'essa si compiacque, e n'arse. Oh meraviglia! Amor, che appena è nato. Già grande vola, e già trionfa armato.

XLVIII.

Ella d'elmo coprissi; e se non era Ch'altri quivi arrivar, ben l'assaliva. Parti dal vinto suo la donna altera, Ch'è per necessità sol fuggitiva; Ma l'immagine sua bella e guerriera Tale ei serbò nel cor, qual essa è viva. E sempre ha nel pensiero e l'atto e'l loco In che la vide; esca continua al foco.

XLIX.

E ben nel volto suo la gente accorta Legger potria: questi arde, e fuor di spene : Così vien sospiroso, e così porta Basse le ciglia, e di mestizia piene. Gli otrocento a cavallo a cui fa scorta, Lasciar' le piagge di campagna amene; Pompa maggior de la natura; e i colli Che vagheggia il Tirren fertili e molli.

Gerus. Liber. T. 1.

L.

Venian dietro dugento in Grecia nati,
Che son quasi di ferro in tutto scarchi:
Pendon spade ritorte a l'un de'lati,
Suonano al tergo lor faretre ed archi :
Asciutti hanno i cavalli, al corso usati,
A la fatica invitti, al cibo parchi;
Ne l'assalir son pronti e nel ritrarsi;
E combatton fuggendo erranti e sparsi.

LI.

Tatin regge la schiera, e sol fu questi, Che Greco accompagnò l'armi latine. Oh vergogna, oh misfatto! or non avesti Tu, Grecia quelle guerre a te vicine? E pur quasi a spettacolo sedesti, Lenta aspettando de'grand' atti il fine. Or se tu se' vil serva, è il tuo servaggio (Non ti lagnar) giustizia, e non oltraggio.

LII.

Squadra d'ordine estrema ecco vien poi, Ma d'onor prima, e di valore e d'arte. Son qui gli avventurieri invitti eroi, Terror de l'Asia, e folgori di Marte. Taccia Argo i Mini, e taccia Artù que' suoi Erranti che di sogni empion le carte; Ch' ogni antica memoria appo costoro Perde. Or qual duce fia degno di loro ?

LIII.

Dudon di Consa è il duce: e perchè duro

Fu il giudicar di sangue e di virtute,
Gli altri sopporsi a lui concordi furo
Ch' avea più cose fatte e più vedute.
Ei di virilità grave e maturo
Mostra in fresco vigor chiome canute;
Mostra, quasi d'onor vestigj degni,
Di non brutte ferite impressi segni,

LIV.

Eustazio è poi fra' primi, e i proprj pregi Illustre il fanno, e più il fratel Buglione. Gernando v'è, nato di re Norvegi, Che scettri vanta, e titoli e corone. Rugger di Balnavilla infra gli egregi La vecchia fama, ed Engerlan ripone. E celebrati son fra i più gagliardi Un Gentonio un Rambaldo e due Gherardi.

LV.

Son fra'lodati Ubaldo anco e Rosmondo Del gran ducato di Lincastro erede. Non fia ch'Obizo il Tosco aggravi al fondo, Chi fa de le memorie avare prede; Nè i tre fratei Lombardi al chiaro mondo Involi, Achille, Sforza, e Palamede; O'l forte Otton, che conquistò lo scudo In cui da l'angue esce il fanciullo ignudo.

1

LVI.

Nè Guasco nè Ridolfo addietro lasso:
Nè l'un nè l'altro Guido, ambo famosi.
Non Eberardo, e non Gernier trapasso
Sotto silenzio ingratamente ascosi.
Ove voi me di numerar già lasso,
Gildippe ed Odoardo amanti e sposi
Rapite? Oh ne la guerra anco consorti,
Non sarete disgiunti, ancor che morti!

LVII.

Ne le scuole d' Amor che non s'apprende!
Ivi si fe'costei guerriera ardita:
Va sempre affissa al caro fianco; e pende
Da un fato solo l'una e l'altra vita.
Colpo ch'ad un sol noccia unqua non scende,
Ma indiviso è il dolor d'ogni ferita:
E spesso è l'un ferito, e l'altro langue;
E versa l'alma quel, se questa il sangue.

LVIII.

Ma il fanciullo Rinaldo e sovra questi,
E sovra quanti in mostra eran condutti,
Dolcemente feroce alzar vedresti

La regal fronte, e in lui mirar sol tutti.
L'età precorse, e la speranza; e presti
Pareano i fior', quando n'usciro i frutti.
Se 'l miri fulminar ne l'arme avvolto,
Marte lo stimi; Amor, se scopre il volto.

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