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LXXXVI.

Ma quando di sua aita ella ne privi
Per gli error' nostri, o per giudizi occulti;
Chi fia di noi ch'esser sepolto schivi
Ov' i membri di Dio fur già sepulti?
Noi morirem, nè invidia avremo ai vivi;
Noi morirem, ma non morremo inulti;
Nè l'Asia riderà di nostra sorte,
Nè pianta fia da noi la nostra morte.
LXXXVII.

Non creder già che noi fuggiam la pace,
Come guerra mortal si fugge e pave;
Che l'amicizia del tuo re ne piace,
Nè d'unirci con lui ne sarà grave.
Ma s'al suo imperio la Giudea soggiace,
Tu'l sai. Perchè tal cura ei dunque n'have?
De' regni altrui l'acquisto ei non ci vieti,
E regga in pace i suoi tranquilli e lieti.

LXXXVIII.

Così rispose: e di pungente rabbia
La risposta ad Argante il cor trafisse:
Nè'l celò già; ma con enfiate labbia
Si trasse avanti al capitano, e disse:
Chi la pace non vuol, la guerra s'abbia;
Che penuria già mai non fu di risse:
E ben la pace ricusar tu mostri,
Se non t'acquieti ai primi detti nostri.

LXXXIX.

Indi il suo manto per lo lembo prese, Curvollo, e fenne un seno, e'l seno sporto, Così pur anco a ragionar riprese Via più che prima dispettoso e torto: O sprezzator de le più dubbie imprese, E guerra e pace in questo sen t'apporto; Tua sia l'elezione: or ti consiglia Senz'altro indagio, e qual più vuoi, ti piglia.

XC.

L'atto fiero e'l parlar tutti commosse A chiamar guerra in un concorde grido; Non attendendo che risposto fosse Dal magnanimo lot duce Goffrido. Spiegò quel crudo il seno, e'l manto scosse: Ed a guerra mortal, disse, vi sfido. E'l disse in atto sì feroce ed empio, Che parve aprir di Giano il chiuso tempio.

XCI.

Parve ch' aprendo il seno, indi traesse Il furor pazzo e la discordia fera; E che ne gli occhj orribili gli ardesse La gran face d'Aletto e di Megera. Quel grande già, che incontra il cielo eresse L'alta mole d'error, forse tal era; E in cotal atto il rimirò Babelle Alzar la fronte, e minacciar le stelle.

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XCII.

Soggiunse allor Goffredo: or riportate
Al vostro re che venga e che s'affretti,
Che la guerra accettiam che minacciate;
Es'ei non vien, fra'l Nilo suo n'aspetti.
Accomiatò lor poscia in dolci e grate
Maniere, e gli onorò di doni eletti.
Ricchissimo ad Alete un elmo diede,
Ch'a Nicea conquistò fra l'altre prede.

XCIII.

Ebbe Argante una spada: e'l fabro egregio L'else e'l pomo le fe' gemmato e d'oro Con magistero tal, che perde il pregio De la ricca materia appo il lavoro. Poichè la tempra e la ricchezza e'l fregio Sottilmente da lui mirati foro;

Disse Argante al Buglion: vedrai ben tosto, Come da me il tuo dono in uso è posto.

XCIV.

Indi tolto congedo, e da lui ditto Al suo compagno: or cen' andremo omai, Io ver Gerusalem, tu verso Egitto; Tu col sol novo, io co' notturni rai: Ch'uopo di mia presenza o di mio scritto Esser non può colà dove tu vai. Reca tu la risposta: io dilungarmi Quinci non vuo', dove si trattan l'armi.

XCV.

Così di messaggier fatto è nemico Sia fretta intempestiva o sia matura; La ragion de le genti, e l'uso antico S'offenda o no; nè'l pensa egli nè'l cura. Senza risposta aver, va per l'amico Silenzio de le stelle a l'alte mura, D'indugio impaziente: ed a chi resta Già non men la dimora anco è molesta. XCVI.

Era la notte, allor ch' alto riposo An l'onde e i venti, e parea muto il mondo. Gli animai lassi, e quei che 'l mare ondoso, O de' liquidi laghi alberga il fondo, E chi si giace in tana o in mandra ascoso, E i pinti augelli ne l'oblio profondo Sotto il silenzio de' secreti orrori

Sopian gli affanni, e raddolciano i cori.

XCVII.

Ma nè'l campo fedel, nè'l franco duca Si discioglie nel sonno, o pur s' accheta: Tanta in lor cupidigia è che riluca Omai nel ciel l'alba aspettata e lieta, Perchè il cammin lor mostri, e gli conduca A la città ch'al gran passaggio è meta; Mirando ad or ad or se raggio alcuno Spunti, o rischiari de la notte il bruno.

Fine del Canto secondo.

Dall'Acqua Soul

Ecco io chino le braccia, e t'appresento
Senza difesa il petto, or che nol ficdi?
Vuoi chagevoli l'opra? I' son contento.

Tas Ger C3.

GERUSALEMME LIBERATA.

Già

CANTO TERZO.

I.

là l'aura messaggiera erasi desta Ad annunziar che se ne vien l'aurora; Ella intanto s'adorna, e l'aurea testa Di rose colte in paradiso infiora; Quando il campo ch'a l'arme omai s'appresta In voce mormorava alta e sonora, E prevenia le trombe: e queste poi Dier più lieti e canori i segni suoi.

Gerus. Liber. T. I.

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